L’uomo e la gallina

L’avvento degli allevamenti intensivi di polli ha avviato una trasformazione genetica dei capi allevati, che devono oggi rispondere a un’unica esigenza: garantire la massima produzione nel più breve tempo possibile.

Ogni riferimento è puramente casuale.
Forse.

Ma andiamo avanti.
Per gli allevamenti intensivi, sono stati selezionati artificialmente i capi, sono stati somministrati loro antibiotici e ormoni per la crescita, sono stati escogitati sistemi per stimolare le galline a essere produttive giorno e notte, forzando i loro cicli biologici. Gli allevamenti sono diventati verticali, su più piani, come giganteschi palazzi capaci di contenere milioni di capi. Di sperimentazione in sperimentazione, i polli da carne, modificati geneticamente, sono passati da un peso medio di un chilo a quattro chili dopo due mesi di vita. Le galline ovaiole sono passate dalle 100 uova l’anno di media negli anni ’40 alle odierne 300.

Se questi miliardi di volatili si trovassero improvvisamente a razzolare all’aperto, probabilmente ci chiederemmo perché abbiamo trasformato questi animali in una massa di impulsi e carne. E probabilmente avremmo difficoltà a trovare una risposta sensata.

È quello che ipotizza Deb Olin Unferth, l’autrice del romanzo “Capannone n. 8”, nel quale la gallina Bwwaauk ritrova se stessa e fugge dal capannone in cui vive, stipata insieme ad altre 150mila compagne di sventura.
La gallina Bwwaauk è la protagonista di una storia di riscossa, che coinvolge un numero imprecisato di galline in fuga. La storia non finisce bene per gli esseri umani, condannati infine all’estinzione, ma molto meglio per i pennuti d’allevamento, i cui discendenti ritroveranno insieme alla libertà la loro originaria natura selvatica e una sorta di ingegnosa intelligenza aviaria.

Chissà se prima dell’estinzione ci sarà anche un Essere Umano che ritrova se stesso?